Non avevo ancora compreso la parola “fame”

Viaggio di condivisione del 2004

Tornati in Tanzania per un’esperienza “missionaria”, siamo stati ospiti di Padre Damas Chale, sacerdote da circa un anno della parrocchia di Mkongo, diocesi di Songea. Un’esperienza, la nostra, compiuta sulla scia di precedenti viaggi nell’ambito del programma di “gemellaggio” voluto dalla parrocchia della Ginestra con quella di Mkongo e appoggiata dal Vescovo di Songea, S.E. Norbert Mtega e del Vescovo di Arezzo, S.E. Gualtiero Bassetti. Il filo conduttore con i nostri amici in Tanzania è ancora Padre Camillo, che molti di voi ricorderanno, e Padre Erick, ex parroco di Mkongo che, avendo perfezionato il suo italiano, ci ha permesso di entrare maggiormente nella realtà sociale e culturale ora affidata alle cure di Padre Damas. L’ho conosciuto durante i pomeriggi trascorsi in mezzo ai bambini giocando. Mi guardava con i suoi grandi occhi umidi, mi tese le braccia per farsi prendere. Fu così per alcuni giorni. Non avevo ancora compreso la parola “fame”. Quel pomeriggio, tornando dal laghetto dove i ragazzi tentavano di pescare con una rudimentale rete cucita nella scuola parrocchiale, quel pomeriggio trascorsi tutta la strada con lui in braccio: la sua testa appoggiata al mio petto, le braccia rilassate. Lo portai in cucina, bevve avidamente un bicchiere di latte e mangiò due frittelle. Vidi il sorriso nei suoi occhi e niente altro: era sordomuto.
Ogni anno di più abbiamo preso consapevolezza delle problematiche di questa gente: le condizioni ambientali sono un serio ostacolo al progresso, le conoscenze tecniche sono primitive. È ricchezza avere qualche animale da cortile che comunque viene usato come prodotto di scambio per sale, zucchero, riso, medicine….Eppure questa gente è felice nonostante le ristrettezze, le basta poco per sorridere, sa insegnarci l’accoglienza e la generosità, sa guardare negli occhi e stringere la mano a tutti. È consapevole dell’inferiorità sociale ed economica rispetto al mondo progredito, sa di dover crescere e camminare, ma non si scoraggia se lo scarto è quasi abissale. Sa anche di non poter contare solo sulle proprie forze ma che serve l’intervento di Dio e sa anche aspettare i suoi tempi. È gente caratterialmente credente. Il volto di bambini poveri, di madri-bambine, di uomini precocemente raggrinziti, le loro povere case di fango, la loro dignità calpestata chiedono all’umanità giustizia e risarcimento. La mente va alla nostra civiltà dell’effimero! Quel pomeriggio di agosto, quando siamo partiti da Mkongo c’erano tutti i nostri bambini per l’ultimo abbraccio. C’era anche lui, il piccolo Tuaibo. Muti ci guardammo, il suo sguardo intenso annullava ogni mia parola facendosi emozione intima.

Viaggio di condivisione del 2005

Da una settimana manca l’acqua al villaggio. Le ragazze della scuola domestica hanno provveduto in qualche modo a portarcela dal fiume con i secchi. Anche se la cosa è gradita, per noi è una situazione imbarazzante: non vogliamo essere privilegiati. Con decisione Gianna ed io, che abbiamo iniziato a lavare il bucato e non abbiamo più acqua, prendiamo i secchi e ci precipitiamo al primo pozzo vicino alla casa: completamente asciutto! I bambini, che seguono ogni nostra mossa, ci indirizzano verso un altro pozzo, avvertendoci però che bisogna pompare l’acqua ed è faticoso. Con l’aiuto dei piccoli riempiamo i due secchi. Ecco il problema. Come portarli? I Wazungu li portano a mano. Tutti ridono del nostro modo goffo e staticamente sbagliato di portare i pesi. Infatti, qualcuno ha compassione di noi: Una nonna ed un bambino ci tolgono premurosamente i secchi di mano, se li caricano sulla testa con fare sicuro e affettuoso, arrivano a casa. Lungo la strada molti sorridono con ironia; le donne bianche non hanno la forza nelle braccia e tanto meno “sulla testa”. Ci sentiamo osservate, quasi un’attrazione: anche questa è Africa.
Arriva il lattaio!! Oggi è “festa del latte” al villaggio. Lungo il viale di mango davanti alla chiesa “allestiamo” quanto serve: tavoli, festoni, biscotti, caramelle. Le ragazze della scuola domestica accendono il fuoco e su quattro mattoni mettono a bollire 40 litri d’acqua per volta. La distribuzione risulta ordinaria e gradita ai piccoli, ai ragazzi della scuola primaria, a padri e madri che, guarda caso, si trovano a passare di lì. Avanza comunque un bel secchio di latte. Ci guardiamo con aria interrogativa e decidiamo di…”fare il lattaio”. Ci incamminiamo lungo la strada del villaggio armati di bicchieri di plastica, latte e biscotti. Ad ogni casa chiediamo: maziwa? (latte?). nessuno rifiuta; alcuni portano il “bricco” da casa per riempirlo. Ad ogni sosta siamo accolti da una nonna e da un bambino, ma in pochi minuti ci troviamo accerchiati da intere famiglia e generazioni. Ridono tutti del nostro fare insolito ed anche noi ci divertiamo a tornare indietro nel tempo. Ormai la nostra sanità è così attenta nella prevenzione che alcune figure del mondo rurale sono bandite e noi non sentiremo più dire: “donne, c’è il lattaio”!

Viaggio di condivisione del 2008

Hai visto mai un mare cristallino e la voglia irrefrenabile di tuffarti in acqua ma di non saper nuotare? Hai visto mai un gabbiano nel tentativo tanto agognato di spiccare il volo verso il cielo ma di non poter volare? Questo è il Congo, questo è Kirungu! I cui abitanti consci della loro povertà, della loro impotenza, portano impresso negli occhi un tempo, in cui si poteva nuotare, un tempo in cui si poteva volare. La guerra! Come un ciclone ha lasciato dietro di sé macerie, è bruciato tutto nei grandi falò dei soldati ruandesi: porte, finestre, mobilio, banchi, sedie. Avevano da scaldarsi loro, avevano da mostrare chi comandava, consapevoli del loro scempio. È caduto tutto: la struttura dello stato, che non è in grado di far circolare la posta, di aprire banche, di gestire ospedali e scuole, uno stato bambino. È caduto tutto, ma non la speranza, quella no, quella non la si può bruciare ad un popolo. Questo, ci mostrano gli occhi delle persone ogni volta che incontri un comitato, un consiglio parrocchiale, un gruppo di giovani. Occhi che chiedono una mano a cambiare la speranza in realtà, occhi che chiedono collaborazione fruttuosa, occhi che dicono: fratello, insieme possiamo….hai visto mai!

Giuseppe e Patrizia