Cosa c’è che non va in questo mondo?

Viaggio di condivisione del 2004

Finalmente ho realizzato un sogno che tenevo nel cassetto dal lontano 1966! Andare in Africa! Il villaggio dove siamo stati io ed altre sette persone con le quali ho condiviso questa esperienza, si chiama Mkongo ed è situato a sud della Tanzania. E’circondato da altri 6 o 7 villaggi; la distanza degli uni dagli altri non sono riuscita a quantificarla, gli spostamenti, comunque erano lunghi e tortuosi ma li abbiamo visitati tutti portando ai bambini latte e biscotti. Certo non con la presunzione di risolvere, almeno per quei giorni, il problema fame, ma in punta di piedi, chiedendo permesso alla porta del villaggio con un dono in cambio della loro ospitalità. Adesso qualunque episodio racconti, anche solo la descrizione di paesaggi, mi sembra inadeguata e sminuita, perché negli occhi di chi ascolta non ritrovo il mio vissuto, le mie parole con riescono ad esprimere sentimenti tanto intensi.
Non riesco a trasmettere le mie emozioni che sono state fortissime e sono indenni nel mio cuore che comincia a battere rumorosamente ogni volta che chiudo gli occhi e rivedo quei momenti tutti africani. Stefy, raccontami tutto! E’ come si vede in televisione? Non hanno cibo a sufficienza? Sono cristiani o musulmani? Come posso rispondere? Si, è vero tutto. Hanno poco cibo e sempre quello. Non hanno acqua, luce, le scuole sono appena sufficienti per imparare a leggere e scrivere, muoiono di malaria e vivono costantemente nella polvere rossa fuori e dentro le loro capanne. Ma quello che la televisione non fa vedere è, nella loro povertà e rassegnazione, la loro dignità, la loro tranquillità e oserei dire serenità, proprio di un popolo che conosce solo il perimetro della sua terra.
Gente che non conosce il “male di vivere”, quel male che sta distruggendo la nostra società cresciuta troppo in fretta senza un’adeguata conoscenza. Il male di crescere senza conoscere. Appena sono arrivata il nodo alla gola per l’eccessiva contentezza ha cominciato a sciogliersi attraverso alcune lacrime; ho visto in maniera offuscata e ondulata, una quantità incredibile di bambini che ci sono venuti incontro urlanti e sorridenti ad accoglierci. Mi sono asciugata gli occhi e nitidamente mi è apparso uno scenario di vestitini sporchi e rotti, nasi gocciolanti, teste con la tigna, pancioni, chiaro segno di malnutrizione e tanti occhi luminosi, vivaci pieni di curiosità e contentezza. Mi sono gettata praticamente in mezzo a loro abbracciandoli e facendomi abbracciare. In quel momento mi sono sentita libera di piangere le lacrime che volevo versare, gustandomi a pieno quell’attimo carico di emozione e di calore. E ho ringraziato Dio.
Ogni giorno mi chiamavano dei bambini per farsi medicare la “donda” ( ferita). Un pomeriggio si è avvicinata una bambina di circa 4 anni, si chiama Gladi, aveva una minuscola ferita sul suo polso. Dopo averla medicata , senza guardarmi negli occhi per la sua timidezza, mi ha ringraziato con un filo di voce. Non ho resistito! E le ho dato una caramella. Con una calma incredibile, Gladi l’ha scartata e si è messa in bocca la carta, dopo averla succhiata per qualche istante l’ha gettata e ha cominciato a leccarsi la caramella. Con le mani appiccicose e con la bocca contornata da saliva resa rossastra dalla povere e rappresa dallo zucchero mi ha di nuovo ringraziato, stavolta guardandomi negli occhi e con un sorriso che mi dimostrava tutta la sua riconoscenza. E’ inutile porsi la solita ormai banale e inutile domanda: Perché esistono ingiustizie così profonde? Cito la Bibbia: ” Dio castiga coloro che ama”. Mi domando: Chi sono i castigati?
Gladi si ricorderà sicuramente della dolcezza di quella caramella ancora per un po’, poi forse dimenticherà. Io non potrò mai dimenticare il suo faccino sporco di polvere e non so cos’altro, divertito, sorpreso e sorridente gustarsi con tanto piacere quel pezzetto di zucchero condensato.
Quella notte stessa, erano le due, non riuscivo a dormire, pensavo a quali altre sorprese sarei andata incontro il giorno dopo. Sono uscita nel cortile. Il cielo! Le stelle! Così luminose e tante, tantissime e così vicine! Un piccolo dolore ai muscoli mi ha distratto e solo in quel momento mi sono accorta che erano passati venticinque minuti. Venticinque minuti in silenzio assoluto, al buio assoluto con lo sguardo rivolto verso il cielo. Che magnificenza! L’Africa mi dava il benvenuto regalandomi quello scenario, facendomi osservare ciò che vedevo senza il più piccolo inquinamento luminoso, con la notte davvero buia e silenziosa, misteriosa e mistica dove, di quel momento, l’unica protagonista ero solo io che non mi vedevo ma mi sentivo, con la pacata ed eterea sensazione di esistere. Ero viva, viva in quel preciso istante, viva nel presente! Africa! Ho sognato di andare in Africa da quando avevo solo 13 anni. Era il 1966 e la televisione trasmetteva programmi sulla situazione critica del Biafra. Sognavo di diventare suora missionaria e di salvare i bambini neri dalla fame. Sono passati tanti anni! Quasi quaranta. Stiamo progettando di andare in vacanza sulla luna e, la situazione in Africa è andata degenerando. Non mi sono fatta suora missionaria, ma “le vie del Signore sono infinite” e sono riuscita ugualmente a fare questo viaggio in terra africana. Per me è stato un mese intenso e straordinario: a stretto contatto con la filosofia di vita fino ad ora sconosciuta e lontano dalle ipocrisie di tutti i giorni, lontano dalle innumerevoli distrazioni, lontano dal tanto chiasso delle parole, lontano dall’ingordigia, dall’arrivismo e dalla superficialità. Credo di aver colmato, con una caramella, quel pezzetto di vuoto che tanto stagnava nel mio cuore e non riuscivo a riempire. Volevo aiutare l’Africa e l’Africa ha aiutato me.

Viaggio di condivisione del 2008

La missione ci richiede sempre di partire. Non necessariamente una partenza geografica. Ci richiede soprattutto una partenza da noi stessi, dal nostro egoismo, dalle nostre troppe comodità, dalla nostra ignoranza. Aiutare chi è più sfortunato di te dovrebbe essere parte integrante della nostra vita quotidiana, nella spontaneità e nella semplicità. Aiutare oggi, invece, non è semplice. Aiutare nella consapevolezza per evitare quegli errori che in qualche caso si sono verificati proprio per aver male interpretato l’identità delle popolazioni che vengono aiutate. Il concetto di aiuto spesso mi è sembrato ingannevole ed ambiguo. Siamo propensi ad un aiuto materiale e frettoloso, mentre aiutare davvero presuppone stare insieme all’altro, occuparsi dell’altro in una relazione complessa e difficile soprattutto se il nostro aiuto è rivolto a popolazioni tanto diverse da noi. L’aiuto porta in sé una duplice condizione: aiuto l’altro e contemporaneamente aiuto di me stesso.
Sono andata in Africa per aiutare, non so se questo è avvenuto, ma di certo l’Africa ha aiutato me . Più la medicina ci ha reso sani e puliti, più ci siamo evoluti tecnologicamente riempiendo le nostre case di ogni bene possibile, più ci siamo svuotati della nostra interiorità.
Loro hanno bisogno di istruzione. Noi abbiamo bisogno di ritrovare la nostra serenità interiore.
I loro bambini muoiono di fame, di malaria, di guerra. I nostri muoiono di noia.
Loro non hanno acqua. Noi ne consumiamo una quantità superiore a quella necessaria.
Potrei riempire pagine e pagine nel descrivere quello che loro non hanno rispetto a quello che noi abbiamo. Basta un rigo per descrivere quello che loro hanno e quello che molti di noi abbiamo perso: amore e senso di fratellanza.
Molte sono le associazioni di volontariato nel territorio nazionale che si occupano di aiuti umanitari rivolti a quelle popolazioni “sottosviluppate” o dilaniate dalle guerre. Il corso di formazione che vorrei organizzare è rivolto proprio a loro e dovrebbe essere basato proprio su “ Chi” andiamo ad aiutare, cosa abbiamo da offrire, come offrirlo e perché. Un corso laico strutturato con confronto attraverso il quale riuscire a far scaturire domande e risposte da sottoporre in sede finale ad esperti del settore. Spero di poter riuscire a concretizzare tutto ciò. Ringrazio Neema che mi ha accolto e mi regala sempre molte opportunità di crescita, come in questo caso.

Viaggio di condivisione del 2011

Nel mio percorso di vita, qualche hanno fa si è presentata l’occasione di diventare volontaria di un’associazione della cooperazione internazionale.
Una goccia nel mare, mi dicevano, ed un insieme di gocce fanno un mare! Ed è con questa convinzione che ho deciso di intraprendere questo percorso ed assecondare quell’esigenza di vita che fino a quel momento mi era sconosciuta. Tra mille dubbi e perplessità, oggi sono ancora parte di quel progetto che si chiama Neema.
Quest’anno insieme ad altre due volontarie, sono partita per la R. D. del Congo. Mi sono ritrovata nella realtà di un Paese pieno di contraddizioni e di equivoci. Un Paese che solo da cinque anni vive una condizione di apparente Democrazia.
Sono stata nel villaggio di Kirungu, vicino al lago Tanganica, dove l’Associazione Neema ha iniziato a collaborare, con la Parrocchia del luogo, alla costruzione di una scuola secondaria, voluta sopra ogni altra cosa dagli abitanti del villaggio stesso, comprendendo la necessità di dare ai loro figli un’istruzione con la speranza di un futuro migliore.
Le scuole sono state per la maggior parte distrutte nei 10 anni di guerra civile. Prese d’assalto dai guerriglieri che ne hanno fatto il loro ambiente di riparo, bruciando banchi, sedie, e quant’altro potesse servire per fare il fuoco.
Attualmente un preside congolese, che abita nel villaggio, di grande sensibilità ma, soprattutto, persona di notevole coraggio, tenta di ristrutturare un complesso scolastico, costruito nel periodo del colonialismo, capace di accogliere moltissimi studenti, ma ancora oggi a distanza di cinque anni dalla fine della guerra sembra un obiettivo quasi impossibile. Centinaia di documenti, pagelle, relazioni, tutti accatastati in un angolo di una stanza 3 x 3 che dovrebbe essere il suo ufficio, le aule sono prive del materiale necessario per portare avanti una didattica sufficientemente  adeguata, e continuano a mancare i banchi e le sedie, per comprensibili problemi economici.
Nel villaggio esiste un ospedale gestito dallo Stato, che, inesistente, lascia allo sbando l’unico medico e pochissimi infermieri, mal pagati o non pagati, con strutture fatiscenti, strumenti assolutamente inadeguati e pochissime medicine.
Ma nel villaggio la maggior parte della gente mangia. Ha la terra, che coltiva e che produce cibo.
Diversa è la situazione a Lubumbashi, capitale del Katanga, dove abbiamo avuto l’opportunità di trascorrere 5 giorni, in attesa dell’aereo che ci avrebbe riportate in Italia. Siamo state ospiti di una Parrocchia congolese.
Lubumbashi porta con sé, in modo molto evidente, tutti i segni del passaggio di una guerra, che ancora in alcune zone fa sentire la sua crudeltà. Qui i cittadini sono completamente privi di quei servizi che per noi sono annoverati con il termine di indispensabili. Le infrastrutture sono obsolete e la mancanza di manutenzione, nel corso degli anni, ha provocato un deterioramento notevole della rete idrica, fenomeno che permette infiltrazioni di sostanze nocive ed inquinanti, rendendo l’acqua di pessima qualità. Quindi il proliferare di malattie come il colera, tifo, vomitosi, oltre alla malaria, l’aids, il morbillo, la lebbra.
Le strade asfaltate sono inesistenti, facendo vivere la gente in una perenne nuvola di polvere, oltre al quasi forzato isolamento, soprattutto nel periodo delle piogge, quando l’acqua rende inagibile qualsiasi via di comunicazione. Però tutto il mondo, nonostante l’evidente corruzione del governo, continua a fare accori economici con il presidente che anche se eletto democraticamente è chiara e tangibile la non democrazia. Nel 2008 l’osservatorio per i diritti umani accusava il governo di Joseph Kabile, l’attuale presidente, di aver soppresso deliberatamente dal 2006 più di 500 oppositori politici.
Ho trascorso solo 5 giorni a Lubumbashi e mi sono stati sufficienti per comprendere una cosa: quelle centinaia di bambini catapultati nelle strade fatiscenti della città completamente allo sbando, abbandonati dalle famiglie perché non possono mantenerli, chiamati i bambini di strada, in cerca di cibo, di riparo, di affetto, saranno i giovani del domani e non oso pensare che tipo di adulti possano diventare, sempre che arrivino ad essere adulti. Confesso che nel vedere scene come quelle che ho visto, spesso mi sono cadute le lacrime e, mentre guardavo, mi domandavo: quanto è umano un mondo in cui da una parte, ci sono situazioni del genere e dall’altra, invece, si butta via tutto? Cosa c’è che non va in questo mondo? Perché proprio noi che facciamo parte dell’umanità, siamo capaci di arrivare a tanto? A permettere che bambini piccoli, innocenti, senza altra colpa che quella di essere nati, siano ridotti a vivere quelle condizioni? Eppure quasi ogni giorno, si parla di quei bambini ed inorridisco quando vengo a sapere che i rappresentanti degli organismi internazionali, anche dell’Unicef, arrivano a percepire stipendi che raggiungono i 12.000 $ al mese. Qualcosa davvero non funziona.
Ho partecipato al funerale di un giovane di 31 anni, e sono stata testimone di un’irruzione di gruppi di giovani, tanti, che ubriachi hanno invaso l’enorme cimitero facendo il chiasso più indecente con lo scopo di ricevere soldi dai familiari dei defunti ( quel giorno c’erano sette funerali) in cambio del silenzio. Mi sono chiesta quanto sia sottile il filo che divide il lecito dal non lecito. Mi sono chiesta: chi ha rubato l’infanzia a quei giovani facendoli diventare quello che sono diventati? E quei bambini dimenticati da tutti saranno poi i giovani che domani escogiteranno chissà quale orrore in cambio di pochi spiccioli? Mi sento coinvolta, perché faccio parte del mondo, in queste tragedie umanitarie che ogni giorno si consumano in tutti quei paesi da noi attualmente denominati in ” via di sviluppo”. Possibile che la mente umana possa generare tanto orrore?
L’Africa in particolare, nonostante gli innumerevoli interventi delle associazioni umanitarie, è sempre più umanamente deturpata e penso che noi “popolo sviluppato” abbiamo il dovere di fare comprendere a quei pochi che detengono il potere che è necessario cambiare politica ed iniziare un percorso di risanamento culturale.
Io sono una semplice volontaria che ha scelto la strada del volontariato perché è in questa veste che mi sento a mio agio ma mai come quest’anno, dopo essere tornata dal mio viaggio in Congo, mi sento impotente e coinvolta in un senso di colpa e responsabilità delle condizioni in cui vivono le popolazioni di quella terra. Riempirsi la bocca di parole politicamente corrette non serve se poi, di fatto, ognuno di noi torna al suo quotidiano che esclude l’altro lontano.
In previsione delle prossime elezioni del 28 Novembre, la tensione a Lubumbashi era molto alta, ed il parroco che ci ha ospitato non ha esitato ad informarci del suo sollievo per la nostra partenza. Mi viene in mente il monito del presidente John Kennedy, ripreso poi da Paolo VI nel suo intervento alla Nazioni Unite: “L’umanità deve porre fine alla guerra, oppure la guerra metterà fine all’umanità”.
Quando i potenti si accorgeranno della catastrofe alla quale andiamo incontro? Quando le persone di pace, che sono tante, riusciranno a trovare gli strumenti giusti per farsi ascoltare? Quante lacrime devono essere ancora versate perché il mare della giustizia possa essere colmato?
Penso che saremo obbligati a diventare migliori.
Ringrazio, con tutto il cuore, l’associazione Neema, che mi ha dato l’opportunità di vivere questa esperienza, in particolare il presidente Giuseppe che mi ha insegnato ad ascoltare il silenzio.

Stefania